Motta San Giovanni è un comune italiano di 5556 abitanti della Città Metropolitana di Reggio Calabria.
Origini del nome
ll nome è un composto di Motta (accumulo di terra) e del nome del santo particolarmente venerato in loco.
Informazioni:
Sito istituzionale:
www.comunemottasg.it
Il Territorio
Il Comune di Motta San Giovanni che comprende, oltre al capoluogo, le frazioni di Lazzaro e Serro Valanidi, si sviluppa su di una superficie di 46.73 km². Confina con i comuni di Montebello Jonico e Reggio Calabria ed è bagnata dal Mar Ionio. Territorialmente il comune occupa la parte esterna dell’Appennino calabro.
Sorge in una posizione assolutamente panoramica, a dominio dello Stretto di Messina coronato dall’Etna che svetta maestoso sullo Ionio meridionale e dai primi contrafforti aspromontani. .
Nell’antichità, cosi come ai nostri giorni, questo territorio ha costituito e costituisce la porta d’accesso al versante meridionale della provincia reggina, la Bovesia, quel territorio di confine nel quale la storia sembra davvero essersi fermata e nel quale ancora oggi sopravvivono usi, tradizioni e cultura degli antichi “Padri” accumunati da una sola lingua: la lingua dei “Greci di Calabria”.
Orograficamente è costituito da una serie di colline degradanti verso il mare in un continuo ondeggiamento di forme e colori . Le spiagge basse e sabbiose, escluso il promontorio di Capo d’Armi, hanno uno sviluppo di 6 km circa.
La Storia di Motta San Giovanni
La prima menzione di “Motta San Giovanni” risale ad un documento del 1412: in precedenza doveva trattarsi di un villaggio, dipendente da Santo Niceto, che prendeva il nome dal monastero di San Giovanni Teologo, che venne fortificato probabilmente sotto gli Angioini.
Nel 1466, dopo la caduta di Santo Niceto l’anno precedente, ad opera degli Aragonesi, ottenne un’autonomia amministrativa e venne riconosciuta la sua universitas. Successivamente divenne a sua volta una baronia, in possesso prima dei Ruffo e poi, dal 1574, dei Villadicane, che ne rafforzarono le fortificazioni. Dal 1604 fu acquisita dai Ruffo di Bagnara e nel 1682 divenne principato.
Nel Seicento il borgo era ancora un’enclave di preti greci. Qui risiedeva Nicola Stavriano, parente del vescovo Giulio Stavriano che nel 1572 aveva abolito il rito greco a Bova. Ironia della sorte volle che, proprio Nicola, fosse prete greco a Motta San Giovanni. Col termine “motta”, infatti, un tempo si indicava un centro fortificato eretto sulla cima di una rupe, inaccessibile e allo stesso tempo panoramico.
Da sempre Motta San Giovanni è nota per la lavorazione artigianale della pietra reggina: una roccia sedimentaria calcarea molto utilizzata in edilizia, estratta principalmente nelle cave di contrada Sarto e dalle cave del promontorio di Capo d’Armi, il costone calcareo battezzato dai Greci Leucopetra (pietra bianca), che sorge a Lazzaro e cresciuta alla fine del Settecento ai margini di un approdo attivo in età romana. Nel 44 a.C., infatti, sbarcò qui Cicerone, ospite nella villa di Publio Valerio, mentre era diretto in Grecia, in fuga da Antonio.
Nel 1811 divenne comune autonomo e vi fu aggregato il villaggio di Pellaro, fino al 1834, quando anche questi divenne comune autonomo e Valanidi entrò a far parte delle dipendenze di Motta. Fino agli anni cinquanta l’economia è stata essenzialmente agricola. Gli anni successivi hanno visto il paese subire una forte emigrazione verso il nord Italia e paesi europei come la Francia, la Svizzera e la Germania, dove il lavoro era garantito, con il conseguente abbandono delle campagne.
Nel periodo prebellico, tra il 1912 e il 1913, venne realizzata, per opera di un suo cittadino Carmelo Catalano, una centrale idroelettrica, sfruttando le acque che lambiscono il territorio comunale. Dopo la realizzazione di un elettrodotto tra la centrale (in rione San Giorgio) ed il paese, Motta poté usufruire della luce elettrica, in un periodo in cui i territori limitrofi venivano illuminati ad olio e petrolio. Nel 1915 venne installato il primo mulino per cereali a trazione elettrica. Le macine importate dalla Francia con la caratteristica che non producevano terriccio.
La Storia di Lazzaro
La ricostruzione del passato del territorio di Lazzaro non è impresa da poco; molti fattori hanno contribuito alla dispersione di ciò che era stato costruito. L’ insediamento sul territorio è stato un continuo rincorrere il mare ed i monti a seconda del periodo e delle vicissitudini storiche. Quando Lazzaro fioriva, Motta probabilmente non esisteva. Successivamente Lazzaro scomparve e per secoli fu Motta ad essere il centro sociale ed economico.
Sicuramente Lazzaro corrisponde all’antica Leucopetra (così chiamata per il colore bianco delle sue rocce). Pare che il primo documento attestante l’esistenza del paese risalga al 1412, “Mocta Sancte Joannis”, ma fu appunto conosciuto come “Leucopetra” (l’odierno capo d’Armi). Il toponimo è composto del termine “Motta” (rialzo del terreno, mucchio naturale di terra o sassi), e dell’angionimo “San Giovanni Evangelista”. L’attuale nome Lazzaro deriva, forse, da un lazzaretto che esisteva negli anni ‘600 – ‘700. Il territorio di Lazzaro a partire dalla fine dell’‘800 è stato oggetto di numerosi rinvenimenti di carattere archeologico che ne documentano un’intenza frequentazione sin dall’età ellenistica, ma soprattutto in età romano imperiale e tardo antica. L’attuale promontorio roccioso di capo d’armi che funge da protezione naturale dai venti di scirocco, era noto già alle fonti classiche con il nome di Leucopetra, cioè roccia bianca, e probabilmente offriva riparo ad un frequentato approdo portuale.
Lazzaro è nota per essere una località di notevole interesse archeologico, in quanto luogo di ritrovamento di diversi reperti. Tra i più importanti, in località Lia, i resti di una villa romana appartenuta probabilmente al patrizio Publio Valerio, il quale ospitò Cicerone in fuga da Roma dopo la condanna subita da parte del Primo triumvirato. In località Capo dell’Armi sono stare rinvenute numerose tracce della presenza dei primi cristiani , tra le quali: un’iscrizione sepolcrale della Lettera ai Romani (8,31) di San Paolo, di età protocristiana; un mattone andato ormai perduto con graffito cristiano recante la scritta «Bibas [o forse Vivas] ad Deo», databile fra il IV secolo d.C. e il VI secolo d.C.; un corredo di oreficeria; una necropoli protocristiana. Inoltre è stata rinvenuta una lucerna raffigurante la Menorah, il candelabro ebraico a sette bracci: testimonianza di una probabile presenza di una comunità ebraica databile intorno al IV secolo.
Nel 1948, durante i lavori per la costruzione dell’ acquedotto, fu rinvenuta casualmente una stipe votiva dedicata al culto della dea Demetra. Le statuine ritrovate sono state datate tra la fine del V secolo a.C. e i primi anni del III secolo a.C.. Già nel 1904 erano state rinvenute alcune statuette fittili femminili databili intorno al IV secolo a.C., dedicate probabilmente a Demetra e/o a Kore. In occasione degli scavi del 1904, fu rinvenuta contestualmente una colonnina dorica e una stele di pietra databile nello stesso periodo delle statuette, recante l’iscrizione: «Kleainetas, figlio di Nicomaco, vota alla dea la decima parte di qualcosa di suo». Tutto ciò a testimonianza di un probabile luogo di culto greco.
Monumenti e luoghi d'interesse
Costruito in epoca bizantina per ovviare alle scorribande saracene, il Castello di Motta S. Aniceto è una fortezza che protegge il tutto il territorio calabro. Sito su una piccola montagna dai versanti ripidi, è raggiungibile anche a piedi, immergendosi nella macchia mediterranea tra sapori forti di fico d’india e profumi di erbe aromatiche. Querce e ulivi proteggono il Castello, da dove una volta arrivati, si può ammirare lo sfondo inconfondibile dell’Etna al di là dello Stretto.
Raro esempio di architettura alto medievale in Calabria, il Castello, detto anche di San Niceto, è stato per secoli luogo di avvistamento e di rifugio per la popolazione reggina, nel corso delle incursioni saracene lungo le coste calabresi e siciliane. Costruito nella prima metà dell’XI secolo, con il passaggio della Calabria sotto il dominio dei Normanni, la fortezza fu ristrutturata ed ampliata con l'aggiunta di alcune torri rettangolari. ed è stato recentemente ristrutturato per consentirne la buona conservazione futura.
Durante il XIII secolo, il castello divenne il centro di comando del fiorente feudo di Sant'Aniceto, ma nel corso dei secoli successivi, fu tormentato dalle guerre tra Angioini ed Aragonesi e passò in diverse mani. Nel 1459, fu infine distrutto dal duca Alfonso di Calabria e cadde definitivamente sotto il controllo dei Reggini.
Il castello presenta una pianta irregolare, che ricorda la forma di una nave con la prua rivolta alla montagna e la poppa al mare. Oggi restano ben visibili le mura di cinta, in parte franate, ma in certi tratti quasi intatte, l'imponente porta d’ingresso con le due torri quadrate. Inoltre sono presenti ruderi di una cisterna per la raccolta dell’acqua e di altre torri d’avvistamento. Ai piedi della salita, è presente la chiesa della SS. Annunziata con la cupola affrescata in modo tradizionalmente bizantino: il soggetto è il Cristo Pantocratore.
Santo Niceto è la dedica data al Castello dai profughi siciliani suoi fondatori. Si presume questo perché nel XI secolo la Sicilia fu particolarmente devota a questo santo, ammiraglio bizantino del VII-VII secolo.
L’Antiquarium Leucopetra, posto all’interno del restaurato palazzoex Caserma della Guardia di Finanza a Lazzaro, custodisce tutti i reperti archeologici rinvenuti nel territorio del comune di Motta San Giovanni. I reperti archeologici esposti in teche all’interno del museo sono testimonianza tangibile degli insediamenti greci, romani e delle epoche successive che sono esistiti in diverse aree del territorio mottese.
Il materiale esposto è stato ritrovato durante le campagne di scavo condotte dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici per la Calabria in diverse occasioni, in arco temporale che va dal 1995 al 2004, e rinvenimenti sporadici avvenuti tra la fine del XIX sec. e gli inizi del XX sec.
All’interno del Museo sono custoditi reperti di notevole pregio intrinseco quali: della ricca Stipe Votiva dedicata al culto di Demetra e Persefone con lucerne, vasi e statuette fittili, datata V-IV sec. a.C. provenienti dallo “Stretto della Ferrina”, sito lungo la strada che da Lazzaro conduce al centro abitato di Motta San Giovanni; ghiande plumbee missili inscritte e datate 42 – 36 a.C. appartenute alla X legione dello Stretto; la lucerna ebraica decorata a stampo con il simbolo della Menorah e le lucerne Cristiane databili V-VI sec. d.C.; materiale ceramico, vasellame, ceramica comune da mensa, corredi funerari e frammenti di sarcofago marmoreo risalenti al II – III sec. d. C. sino al VII – VIII sec. d. C.; di Epoca Bizantina e quelli di Epoca Medievale provenienti dalla fortezza di Santo Niceto; quest’ultimi ritrovati durante una campagna di scavo condotta tra il 2000 e il 2003.
Il fiore all’occhiello del museo, però, risultano essere senza dubbio i resti di una Villa Romana con Mausoleo e quelli di un abitato tardoantico del II-III sec. d.C.
Il Parco Archeologico di Lazzaro è uno dei siti di rilevante importanza nel piano di valorizzazione dei Beni Archeologici del territorio, legato al Museo Civico Archeologico – Antiquarium Leucopetra. Il Parco è stato definito nel 2016 ed è costituito da un’area posta a sinistra e a destra della via Nazionale a Lazzaro in prossimità della foce del Torrente San Vincenzo in regime di tutela con D. M. 21/09/1984. In quest’area dal 1995 in poi, sono state condotte diverse campagne di scavo per opera della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria; tali scavi hanno riportato alla luce un importante Mausoleo costruito tra la fine del II ed il III sec. d.C., resti di un abitato tardo antico, fornaci, sepolture e nella zona adiacente, compresa tra la strada Nazionale e la SS 106, una villa signorile romana, che alcuni studiosi ipotizzano sia appartenuta al console romano Publio Valerio, onorata dalla visita di Cicerone, mentre altri attribuiscono a qualche benestante liberto romano più a monte della prima descritta, nella quale sono stati rinvenuti dei pavimenti musivi.
Nel parco archeologico possiamo inoltre notare la presenza di muri di edifici successivi, edificati intorno al V-VI sec d.C. da un villaggio molto esteso sia dal lato del torrente San Vincenzo sia a monte, che ci testimonia il riutilizzo della zona per un piccolo villaggio agricolo, che si serviva della presenza di sorgenti d’acqua sia per le coltivazioni ortive che per la produzione di laterizi. Nell’area sono inoltre stati ritrovati i resti di due sepolture, in una delle quali sono state inumate tre persone in periodi differenti, s’ipotizza fossero di un’unica famiglia. Dai resti di questa sepoltura provengono un medaglione, un orecchino e un’anforetta conservati presso l’Antiquarium. Un’altra testimonianza dell’importanza del sito è data dal ritrovamento di un “dòlio” cioè una grande giara interrata utilizzata in tempi antichi per conservare gli alimenti. È stato inoltre ritrovato un piccolo tesoretto monetario afferente all’Età Tardo – Antica.
La chiesa di San Giovanni Teologo era inserita all’interno di un complesso monastico di tradizione greco- ortodossa, risalente al X secolo.
Nel 1774 il vescovo Alberto Maria Capobianco, trovando abbandonati la chiesa e quel che restava del monastero, ne trasferì le rendite in favore del Seminario di Reggio. L’edificio, distrutto una prima volta in occasione del terremoto del 1894, fu ricostruito nello stesso anno a spese dei devoti e una seconda volta da Carlo De Blasio di Palizzi, che volle riedificare l’antica chiesa distrutta dal successivo sisma del 1908.
L’attuale costruzione ha navata unica con abside estradossata, separata e rialzata rispetto alla navata da tre gradini. La facciata, in cui sono state reimpiegate alcune pietre della vecchia chiesa, presenta in alto un frontone semicircolare in cui è incastonata una colonnina nella quale s’intravede il cosiddetto “giglio di Francia”, ripetuto all’interno di un fitto reticolato.
Al suo interno, oltre alla statua di marmo di San Giovanni Teologo si trovano: una statua lignea di S. Giovanni, una campana data 1610 di cui non si conosce la provenienza; una statua lignea di S. Barbara, fatta fare, a Ortisei (BZ) dallo scultore F. Stuflesser nei primi anni del Novecento e in sacrestia uno stendardo raffigurante S. Giovanni Evangelista in tessuto di seta broccato, della fine dell’Ottocento, con le iniziali probabilmente del committente.
La statua di San Giovanni Evangelista, il Teologo per i greci, posta su un basamento cubico sull’altare centrale, è scolpita su un unico blocco di marmo che include anche il basamento. La scultura, alta mt 1,60, poggia su uno scannello alto cm 16. Il Santo è raffigurato in posizione eretta, con la parte alta del busto bloccata, mentre quella inferiore presenta una torsione del corpo che, oltre ad arricchire il drappeggio del mantello, segna l’atto del movimento in avanti. Secondo la consueta iconografia, il Santo reca la mano destra al petto mentre regge con la sinistra il libro; ai suoi piedi giace un’aquila con ali semi-spiegate. La scultura di San Giovanni Teologo attribuita convenzionalmente a scuola gaginesca, è stata ricondotta da Alessandra Migliorato all’opera dello scultore Martino Montanini e datata tra 1547 e 1561.
Sul basamento è scolpito un importante stemma Aragonese inquartato con le insegne dei d’Angiò; nel primo e nel quarto è collocata l’arma palata d’Aragona, nel secondo e nel terzo l’arma degli Angiò – Durazzo. Questi ultimi, sovrani di Napoli prima degli Aragona, vantavano diritti sui troni d’Ungheria e di Gerusalemme, recando impressi sullo stemma, in ordine: “il fasciato di rosso e d’argento di otto pezzi” della casata ungherese, a seguire il simbolo rappresentante la casata d’Angiò “d’azzurro seminato di gigli d’oro” e, per ultimo, il simbolo di Gerusalemme, ossia “la croce contornata sui quattro bracci da quattro crocette più piccole”. La presenza di questo stemma è stata importante per le ricostruzioni storiche degli studiosi.
La chiesa di antica fondazione si trova nello stesso sito, dove un tempo sorgeva il monastero bizantino di S. Maria di Campo, i cui ruderi sono ancora in parte visibili. Il termine “Leandro” è, secondo alcuni studiosi, attribuibile ad un Santo spagnolo del IX secolo che diede il nome alla località, secondo altri il titolo si deve alla pianta dell’oleandro, tipica e presente nel territorio mottese.
La chiesa di crca m 6 x 12 è orientata e si presenta divisa in navata unica, orientata non absidata e coro da un arco a diaframma, un gradino e una balaustra in ferro battuto, quest’ultima fatta collocare dal vescovo D’Afflitto nel 1605. Entrando sulla sinistra si scorge l’acquasantiera con conca circolare e piedistallo del 1667. Il prospetto principale e d’ingresso si presenta una facciata semplice priva di decorazioni con portale d’ingresso ad arco a tutto sesto e, a sinistra, una torre campanaria a base quadrangolare. Il presbiterio, leggermente più stretto rispetto alla navata, rispecchia la forma detta in Grecia della “trullocamàra”: al centro è l’altare maggiore sul quale è collocata la bellissima statua della Vergine con Bambino.
La più importante chiesa di Lazzaro è Santa Maria delle Grazie. Dopo che il terremoto del 1908 ne distrusse la struttura originaria, essa fu riedificata nel 1926 in un sito adiacente. L’interno è a tre navate: entrando, sulla navata sinistra, è collocata una statua di Santa Barbara, comprata dai minatori del posto negli anni 50. Santa Barbara fu elevata a protettrice dei minatori, che da queste parti erano numerosi. La necessità di lavoro spingeva molti uomini a lavorare nelle miniere del nord Italia e all’estero, e diversi di loro perirono per cause di servizio. Oggi quei minatori vengono ricordati dai loro discendenti il 4 dicembre.
Di particolare rilievo per la pietà popolare locale è la statua della Madonna delle Grazie col Bambino, collocata in fondo alla navata destra. Il simulacro fu realizzato nel 1911, in segno di ringraziamento, dal popolo di Lazzaro scampato al terribile terremoto del 1908.
La festa della Madonna delle Grazie si svolge ad agosto, e la statua viene portata in processione per le vie del centro. L’altare della chiesa è stato rifatto nel 1994, utilizzando pietra locale. Le campane risalgono al 1912.
La chiesa del Carmine si trova nell’omonima via del centro abitato di Motta San Giovanni, conservatasi nel tempo, rappresenta oggi la testimonianza tangibile della presenza di un convento di ordine mendicante con annessa chieda dedicata alla Madonna del Carmelo, di cui ricorre la memoria liturgica il 16 luglio nel calendario Gregoriano.
La chiesetta della Madonna del Carmine, si è conservata nel tempo seppur con dei rimaneggiamenti che hanno modificato l’aspetto originario, ha dimensioni di 3,50 m di larghezza per 11,10 m di lunghezza (misura interna) e al suo interno troviamo: una statua di legno di ciliegio della Madonna del Carmelo dei primi anni del Novecento e un’acquasantiera Cinquecentesca a muro con angioletto scolpito, addossata alla parete destra dell’ingresso.
L’attuale chiesa di Santa Caterina, di dimensioni interne 10 m x 24 m circa, è intitolata alla Santa Vergine e Martire è costruita tra il Rione Baracche e il Rione Mulini, è una struttura moderna con copertura a solaio piano che si evidenzia sulla linea orizzontale della facciata. L’ingresso principale, posto sotto un portico che corre anche sulle pareti laterali, dà accesso a un ambiente a navata unica. Sulla parete di destra vicino al presbiterio sono collocate delle mensole ove sono poste le sculture lignee di S. Giuseppe del 1905 e dell’Addolorata; a sinistra, sopra una mensola alta, vi è la statua di S. Caterina, iconograficamente rappresentata con la spada nella mano destra e con la palma nella mano sinistra, in basso è collocata la statua del Sacro Cuore di Gesù. Entrando la prima cosa che colpisce gli occhi dell’osservatore, è un grande crocefisso di legno posto dietro l’Altare. La costruzione della nuova chiesa di Santa Caterina V. M. risale agli ultimi anni Cinquanta del Novecento e fu inaugurata nel 1959.
Questa chiesa dalla prima domenica di maggio al 15 agosto ospita la sagra effigie della Madonna del Leandro.
In località Suso di Motta San Giovanni si trova la chiesa di San Rocco, ricostruita nel 1990 circa sui ruderi dellaprotopapale di San Michele Arcangelo. Dell’antico edificio non rimane più alcuna traccia, ma grazie alla descrizione redatta dal sacerdote Domenico Mesiano nel 1901 si apprende che era di origini antichissime tanto da conservare al suo interno una lastra lapidea dedicata ad un tal Giacomo di Martino morto nel 1098 e seppellito nell’arcipretale. Nella sacrestia della chiesa attuale sono custoditi importanti frammenti lapidei provenienti da varie chiese del territorio distrutte dal terremoto: una corona e alcune lastre marmoree, elementi decorativi vari e puttini.