Condofuri (Κοντοχώρι, Kondochòri in greco di Calabria) è un comune italiano di 4604 abitanti della città metropolitana di Reggio Calabria.
Il comune è inserito nell’area linguistico-geografica Grecanica, caratterizzata cioè, dalla presenza di una lingua parlata e scritta strettamente imparentata con il greco antico.
Origini del nome
Il nome deriva dal greco *kontochôri (Konta-Korion, Conda-Chorion o Conda-Chori), dove chôri significa “paese”, e ha probabilmente il significato di ‘paese basso, vicino’ o ‘vicino al paese’ probabilmente in riferimento alla vicinanza con Gallicianò e Amendolea, attualmente frazioni.
Informazioni:
Sito istituzionale:
www.comune.condofuri.rc.it
Il Territorio
Si trova poco all’interno della costa ionica meridionale della Calabria, non molto lontano dallo Stretto di Messina a nord-ovest, poco più a ovest della Costa dei Gelsomini e con alle spalle l’Aspromonte.
Il comune condofurese raduna numerosi centri, ciascuno in diversa misura legato alla cultura grecanica. Le frazioni sono: Amendolea (Dialetto Greco-Calabro: Ameddalià, Amegdalià), Bandiera, Barone, Carcara, Condofuri Marina, Gallicianò (Dialetto Greco-Calabro: Gallikianò), Grotte, Lapsè (Dialetto Greco-Calabro: Lampsè), Limmara, Lugarà (Dialetto Greco-Calabro: Lygarià), Mangani, Muccari, Palermo (Dialetto Greco-Calabro: Pànormo), Pietra, Plembaci (Dialetto Greco-Calabro: Plymvàki), Rodì (Dialetto Greco-Calabro: Rhòdi), Rossetta, San Carlo, Santa Lucia, Schiavo, Stazione, Straci (Pellegrina).
La Storia
L’origine dell’abitato risale all’epoca bizantina ed è da attribuire agli abitanti greci della scomparsa Periplion o Peripoli, colonia locrese. Originariamente il paese apparteneva alla baronia di Amendolea – che fu per molto tempo il centro più importante – citata per la prima volta in un diploma greco del XI secolo e che prende il nome dalla famiglia normanna (riportata nelle fonti come Mandelée, Amigdalias, Amendolea) che per prima l’ebbe in feudo; nel ‘400 passa ai del Balzo poi ai Cardona e alla fine del secolo agli Abenavolo dai quali passò, per volere dell’imperatore Carlo V, nel 1528 a Bernardino Martyrano e dopo pochi anni ai Gomez de Sylva che nel 1624 la vendettero ai Ruffo che la tennero fino al 1794.
Secondo l’ordinamento amministrativo francese del 1807 Condofuri aveva lo status di “Luogo”, cioè “Università” del governo della vicina Bova. Un successivo decreto, risalente al 1811, istituisce i Circondari e i Comuni: Condofuri fu dichiarata Comune a capo delle frazioni di Gallicianò e Amendolea. Un’altra legge del periodo Borbonico, del 1º maggio 1816, trasferì il Comune di Condofuri dalla Provincia di Catanzaro a quella di Reggio Calabria appena istituita. Gallicianò ed Amendolea erano considerate sottocomuni, San Carlo un villaggio.
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Appollaiato a 300 metri dal mare, il piccolo comune vanta una entroterra praticamente intatto, dominato dall’imponente fiumara Amendolea: l’antica autostrada verso l’Aspromonte, ancora oggi percorribile a piedi fino alle suggestive cascate Maesano. Nel borgo, abitato ancora da pochi anziani, era maestosa, la grande chiesa di San Domenico, ricca di importanti sculture lignee databili dal Sei al Novecento.
Il centro di Condofuri è davvero caratteristico, con case e strade disposte a gradinate che alternano terrazze a balconi ricchi di fiori. Da vedere la Chiesa Parrocchiale, di antica fondazione, che conserva al suo interno numerose opere di artisti locali, il castello di Amendolea, visibile già dalla strada provinciale, che conserva i muraglioni merlati e i resti di un torrione e che secondo la leggenda era unito da una galleria segreta alla frazione di San Carlo di Condofuri.
Un’attenzione particolare merita Gallicianò, unico borgo interamente ellenofono, anche se la lingua grecanica qui utilizzata è confinata in un ambiente sempre più esclusivamente domestico. Gallicianò è nota in tutta l’area per l’alta conservatività rispetto alle tradizioni grecaniche, non solo in ambito linguistico ma anche musicale, gastronomico, rituale. Qui nel ‘99 è stata aperta la piccola chiesa ortodossa di Panaghìa tis Elladas (Madonna dei Greci). La chiesetta, di tipico impianto contadino, edificata dall’architetto Domenico Nucera (noto come Mimmolino l’Artista) ristrutturando una casa in pietra nella parte alta del paese, è aperta al culto e rappresenta la testimonianza di un rinnovato clima ecumenico e di un ritorno degli ortodossi in siti d’antichissimo culto greco.
Oggi l’asse di Condofùri è orientato soprattutto sulla marina (Condofùri Marina), anche se mantiene parte degli uffici amministrativi a Condofùri Superiore.
Condofuri Marina, e le sue spiagge, si popolano d’estate di una buona presenza di turisti. Non dimentichiamoci che l’Area Grecanica è la meta ideale per chi ama il mare e la montagna. Entrambi infatti sono raggiungibili con pochi chilometri.
La Minoranza linguistica Greco-Calabra
La minoranza linguistica greca d'Italia, così come riconosciuta dallo Stato italiano, è composta dalle due isole linguistiche della Bovesìa, Vallata dell'Amendolea, Gallicianò, Roghudi, Roccaforte del Greco nel reggino e della Grecìa salentina nel Salento, che di fatto costituiscono la totalità delle aree ellenofone esistenti in Italia.
Il greco calabro o griko (anche grico), idioma praticato in queste comunità, è un dialetto (o gruppo di dialetti) di tipo neo-greco residuato probabilmente di una più ampia e continua area linguistica ellenofona esistita anticamente nella parte costiera della Magna Grecia. I greci odierni chiamano la lingua Katoitaliótika (Greco: ΚατωιταλιÏŽτικα, "Italiano meridionale") oppure, in riferimento al solo dialetto della Bovesìa, calabrese, anche se quest'ultimo può riferirsi eufemisticamente al pidgin greco-italiano pure esistente nell'area. Il numero complessivo della minoranza etnica-linguista che ancora parla la lingua greca in Calabria è di circa 200 unità e nel salento nel Sud Italia è stimata intorno alle 10.000.
Monumenti e luoghi d'interesse
Tra i meandri del maestoso nastro d'argento, lungo uno dei costoni rocciosi che degradano verso la più importante fiumara dell'Aspromonte, a 620 m.s.l.m., sorge Gallicianò (Gaḍḍhicianò in greco di Calabria), piccolo borgo tuttora completamente ellenofono della Vallata dell'Amendolea, non solo in ambito linguistico ma anche musicale, gastronomico e rituale, definito l’Acropoli della Magna Grecia in Calabria.
Fino a tempi piuttosto recenti, come accadeva per altri borghi aspromontani, questo piccolo villaggio era raggiungibile esclusivamente a piedi camminando per ore lungo i sentieri che si snodavano tra i selvaggi crinali risalendo la fiumara, le storiche mulattiere che attraversavano le campagne o dalle vie che scendevano da Monte Scafi, la cui sommità, con i suoi 1138 m. s.l.m., si pone a protezione dell'abitato.
Gallicianò è uno scrigno. Un borgo davvero minuscolo, famoso per la sua bellezza e per la lavorazione del bergamotto, ma soprattutto per una caratteristica molto insolita: basta camminare per le stradine e le viuzze per accorgersi che qui targhe e cartelli sono scritti tutti in due lingue, italiano e greco, la lingua che gli abitanti di Gallicianò (una sessantina appena) parlano ancora tra loro nella quotidianità.
Il nucleo abitativo si distribuisce attorno alla piazza con al centro la chiesa di San Giovanni Battista. La facciata, col suo campanile a torre ha l’aspetto di un tempio greco: un sacello sacro, protetto e tenuto sott’occhio da tutti i residenti. Per accedervi si sale una gradinata che porta al sagrato sopraelevato, chiamato Prepiglio dove alla vigilia dei morti e di Natale viene realizzato un grande falò con le legna portate dai bambini, che le raccolgono nelle varie abitazioni.
All’interno della chiesa, in fondo alla navata, si staglia, al centro dell’altare ligneo d’età barocca, la statua di San Giovanni Battista, reggente sul vangelo l’Agnello. Il simbolo araldico del vescovo di Bova, Giovanni Camerota, scolpito nello scannello, consente di datare l’opera tra il 1592 e il 1620, anche se ignoto rimane il nome dell’autore.
In basso sulla sinistra, la scultura ottocentesca in legno del Battista, raffigurato giovane, bello e con il braccio teso a Dio. Indubbiamente è lui il protagonista indiscusso della viscerale religiosità dei Gaddhicianisi. Il 29 Agosto, è portato in processione per il paese, mentre la gente sparge semi di grano, altro antico retaggio della Magna Grecia.
Quello che colpisce appena si giunge in paese è il forte spirito di aggregazione ed ospitalità. L’ignoto non viene guardato con occhi sospetti, ma viene accolto con un caldo Kalimera, kalos irtete (buongiorno e benvenuti in Greco). La sensazione che si prova è quella di essere a casa, un posto in cui riconciliarsi con il proprio essere primordiale, lasciandosi trasportare delle fresche note del vendo e dal caldo sole.
Tra i gioielli storici e culturali custoditi dal borgo, vi è la piccola chiesa ortodossa di Panaghìa tis Elladas (Madonna dei Greci), aperta al culto nel 1999, dove ancora oggi si celebra il rito greco-ortodosso. La chiesa, di impianto contadino, è stata eretta a testimonianza di un ritorno “da pellegrini” degli ortodossi in siti d’antichissimo culto greco. In essa si si trovano tantissime icone e alcuni recenti affreschi, che rappresentano scene della vita di Gesù ma anche santi la cui memoria si è persa nel tempo e oggi recuperata. Nella stessa chiesa sono custoditi una statua di San Giovanni (XVI° sec.), un fonte battesimale, due campane del 1508 e del 1683 ed alcune lucernette fittili.
Simbolica anche la “Fontana dell’amore” (cannalo tis agapi) così denominata perché lì anticamente si incontravano i fidanzati. La leggenda vuole che nel bere si debba esprimere intensamente un desiderio verso la persona amata e questo si realizzerà. Negli antichi borghi ellenofoni il fidanzamento “ufficiale” avveniva attraverso la pratica del “cippitinnàu”. Il termine “cippitinnàu”, rimasto a designare il fidanzamento, allude per la precisione al rituale cui era collegato, e prende origine dal “ccìppo”, il ceppo di legno che lo spasimante poneva, dopo averlo bruciacchiato, davanti alla porta di casa della donna che desiderava prendere in moglie. Se il pretendente “era nelle grazie” dei genitori della ragazza, il “ccìppo” durante la notte veniva portato dentro casa; in caso contrario il padre lo faceva rotolare per strada.
Nel borgo è visitabile anche un Museo Etnografico dedicato ad Angela Bogasari Merianoù, la filosofa greca giunta a Gallicianò negli anni ‘70, alla scoperta di questa piccola comunità con cui condivideva le origini. La struttura museale è stata realizzata con materiali donati dagli stessi paesani, convinti che fosse l’unico modo per mantenere viva la memoria di un borgo che piano piano sta scomparendo.
In piena area grecanica, il sito archeologico si arrampica su un cucuzzolo del versante ionico dell’Aspromonte a circa 400 metri slm, sulla riva della spettacolare fiumara Amendolea (un tempo navigabile), a pochi km dal mare. L’origine del nome “Amendolea” potrebbe derivare dalla presenza in zona di parecchi alberi di mandorlo (nel dialetto locale, con il termine “mmenduli” si intendono le mandorle, dal greco Amigdala), ma anche dalla famiglia omonima che ne deteneva il dominio in epoca fuedale. Sovrastato dalla rocca su cui si ergono le rovine dell’imponente castello normanno dei Ruffo di Calabria (il cosiddetto Castello dell’Amendolea), il vecchio borgo fortificato è stato gradualmente abbandonato a causa di calamità naturali, tra cui i terremoti del 1783 e del 1908, e definitivamente dopo l’alluvione del 1956. Il borgo antico è raggiungibile salendo da una stradina impervia, che dall’abitato nuovo conduce ad un piazzale che funge anche da parcheggio.
Il Castello dei Ruffo (proprietari dal 1624 al 1794, fine dell’età feudale), fu costruito nel XII secolo. Nel corso del tempo ha subito diverse modificazioni, con costruzione anche di nuovi ed eleganti ambienti e edifici. Il terremoto del 1783 ne sanzionò l’abbandono. Nonostante le passate trasformazioni e l’attuale stato di trascuratezza, il borgo e il castello conservano ancora evidenti segni della fase medievale. Dentro le mura del castello si trovano i ruderi della chiesa SS.Annunziata (XIV secolo), nelle immediate vicinanze i resti delle chiesette di Santa Caterina (XIII sec.), San Sebastiano (XV sec.) e San Nicola (XI sec.).
Il castello sorge al centro della attuale area grecanica, in una posizione di notevole importanza strategica. In epoca molto più antica, qui era posto il confine fra Reggio e Locri.
Molti studiosi fanno risalire la costruzione della fortezza medievale dell'Amendolea al periodo Normanno (sotto Riccardo di Amendolea), altri propendono per il periodo Bizantino, come potrebbero provare le monete rinvenute sul luogo e alcune chiesette bizantine situate nei pressi del fortilizio. Il castello è posto su una rupe, a 358 metri sul livello del mare e a 8 Km dalla costa ionica, in una posizione di assoluto dominio della valle dell’Amendolea.
Nel castello, di dimensioni enormi, sono riconoscibili ancora vari ambienti, due cisterne per la raccolta delle acque piovane, una cappella, vi è un’abside con tracce di affreschi. Il rudere si presenta con un muro di cinta che delimita uno spazio di ingresso di forma parallelepipeda da cui si accede ad una zona residenziale; di questa rimane una sala rettangolare il cui pavimento è oggi occupato da erba e rocce. Sul muro che guarda verso est resistono ancora tre grandi finestre vicino alle quali erano collocate delle nicchie che ospitavano le sentinelle. Il castello è a pianta irregolare con robusti muraglioni merlati che seguono il ciglio delle scarpate. Le mura, di pietrame intercalato con cocci di coppi, hanno un andamento curvilineo nella zona Nord-Est; la parte Sud presenta una torre quadrangolare, mentre a Sud-Est il muro presenta una finestra ad arco che delimitava una sala, oggi crollata. Il castello era merlato e la sua importanza si percepisce dalle dimensioni dei luoghi e da un enorme caminetto nella terza torre. I muri del castello sono stati realizzati con una pasta di zolfo e ferro bolliti, minerali presenti nelle rocce su cui l'edificio sorge.
Purtroppo i terremoti e le guerre hanno ridotto il castello a ruderi. Non molto tempo fa sono stati eseguiti dei lavori per la messa in sicurezza del maniero e per renderlo visitabile.
Al castello si accede tramite una lunga scalinata che parte dalla vicina strada asfaltata, che dalla valle si porta alla quota superiore da dove prosegue per Bova.
Il Museo Etnografico “Anzel Bogasari-Merianoù” di Gallicianò di Condofuri si trova nei locali appartenenti alla parrocchia di San Giovanni Battista, al primo piano dell’antico edificio tradizionale in pietra sito nei pressi della sorgente “Cànnalo tis Agàpi”.
Nella collezione d’oggetti ed attrezzi tradizionali sono rappresentati sinteticamente tutti gli aspetti culturali delle comunità ellenofone dell’Aspromonte. Si fa riferimento, in modo particolare, alla collezione delle coperte antiche in tessuto di ginestra (spàrto), di seta grezza (capicciòla) e lana (maddhì) che, insieme con i manufatti di legno inciso, riproducono in modo fedele gli antichi disegni dell’arte bizantina tramandati fino ai nostri giorni dalla popolazione grecanica che, nonostante fosse povera, era ricca d’amore e gusto per il bello.
Tali disegni si riscontrano anche nelle vesti degli antichi imperatori di Bisanzio (Costantinopoli), oggi Istanbul, e nelle vesti di molti santi e asceti rappresentati nelle icone, nelle miniature, negli affreschi e nei mosaici della chiesa del mondo ortodosso e bizantino, dalla Russia alla Grecia, dall’Egitto fino a tutto il Mediterraneo.
L’allestimento del Museo è stato possibile anche grazie all’interessamento di tutti gli abitanti del vecchio borgo che hanno partecipato con entusiasmo alla raccolta degli attrezzi, donandone qualcuno in loro possesso al Museo ed indicando spesso, soprattutto le persone più anziane, la terminologia in grecanico del singolo manufatto o di una parte di esso. Tale terminologia, appartenendo a utensili non più in uso nelle attività odierne, rischiava di essere perduta o di essere attribuita ad attrezzi o funzioni non appropriate all’oggetto a cui si riferiscono.
Lo spazio espositivo del Museo è costituito da tre ambienti: Sala A dove sono esposti gli attrezzi utilizzati dai pastori e dai contadini per la loro attività di lavoro nei campi e nelle montagne; Sala B dove sono raccolti gli utensili e gli attrezzi utilizzati dai grecofoni all’interno degli edifici per svolgere le loro attività quotidiane (la panificazione, la tessitura, ecc.); Sala C dove si è invece provveduto ad allestire l’arredamento di una umile e tipica abitazione in cui vivevano i pastori, i contadini e gli artigiani della piccola comunità di Gallicianò.
La sala A, dove è ubicato l’ingresso al Museo rappresenta pure l’ideale proseguimento dell’esposizione museale esterna allestita lungo la via Panaghìa tis Ellàda (Madonna di Grecia). Tale raccolta all’ingresso del piccolo borgo ha inizio con l’esposizione di manufatti di archeologia industriale relativi agli antichi frantoi in funzione nell’Area Grecanica fino agli anni ’40.
Il Museo è intitolato a Anzel Merianoù, studiosa greca specializzata in Etnografia e autrice di diversi saggi, articoli, poesie e monografie sulla vita e la Cultura dei Greci dell’Italia Meridionale.